A review by miraphora
Danzando sui vetri rotti by Ka Hancock

3.0

E' una valle di lacrime, questo romanzo. Dalla prima all'ultima parola, sofferenza su carta. Mi chiedo perché certe persone debbano sentire la necessità di romanzare episodi drammatici come solo le malattie sanno essere. Perché trasformare in uno strumento per fare soldi una realtà vissuta da innumerevoli persone ogni giorno: il cancro, la morte, la sofferenza, la privazione. Perché lucrare sull'ingiustizia della vita. Alcuni direbbero che è giusto aprire gli occhi, che escludere certi temi dalla narrativa di intrattenimento è come chiudere gli occhi e ignorare il problema, ma - sinceramente - la vita è già una merda così com'è e io non sento il bisogno di tormentarmi anche mentre leggo.
Per curiosità ho guardato il sito dell'autrice - al primo romanzo, tra l'altro - è mi è sembrata una persona ben felice di farsi pubblicità, felice che un romanzo del genere le abbia fruttato un sacco di soldini. Ho avuto l'impressione che l'argomento - che non viene trattato MAI in nessuna pagina, nemmeno nel suo blog - sia solo una componente marginale, solo una storia inventata, con la scusa che ha lavorato come infermiera. Non mi è piaciuta, questa sensazione. E' come se avesse strumentalizzato un episodio, magari che ha visto vivere veramente a qualche paziente, e lo avesse trasformato a proprio uso e consumo. Guadagnarsi l'ammirazione di persone che del cancro hanno avuto un'esperienza vera.
Detto così sembra che il libro non mi sia piaciuto per niente. In realtà gli ho dato un voto alto, perché tutto il ragionamento che ho fatto è nato dopo che avevo finito di leggerlo. Dopo, quando finisci di piangere come una fontana, ti chiedi perché: forse l'autrice ha avuto il cancro? Forse una persona a lei vicina ha sofferto di bipolarismo? Sapete quello che penso.
Il romanzo non ha un lieto fine, è inutile affrontare la lettura con la speranza che è bene ciò che finisce bene. Qua si inizia tutti pimpanti, fiduciosi che le malattie - entrambi i personaggi sono malati - spariranno grazie alla sola forza dell'amore. Meglio tenere presente che LA malattia, il cancro, uscirà vincitrice, non l'amore.
Lo si capisce fin da subito, quando Mickey scrive sul suo diario, una specie di testamento da cui traspare la consapevolezza che la morte e la sofferenza sono e saranno i dominatori della sua vita. Lo si capisce perché lo spirito con cui i personaggi parlano e agiscono è di una felicità forzata, dettata quasi dalla disperazione. Una leggerezza imposta come un falso sorriso che nasconde un terrore strisciante. I due protagonisti si aggrappano ad ogni scusa per sprizzare felicità, si atteggiano a persone tranquille che vivono la loro vita ma sotto sotto sanno che hanno il tempo contato: Michael è vittima di continui e costanti episodi psicotici in cui la sua malattia lo catapulta in una realtà parallela, dove è un'altra persona. Lucy deve fare i conti sia con la malattia del marito ma anche con la sua, il cancro; combattuto una volta, ma recidivo, il cancro di Lucy è incarnato dallo spirito della morte che fluttua tra le pagine e non sai mai quando apparirà.
Eppure, nonostante le difficoltà e il futuro incerto, sia Lucy che Mickey accettano di giocare tutte le loro carte: non vogliono privarsi della gioia di vivere, ma allo stesso tempo sono troppo realisti per lasciarsi andare al caso. Decidono di non avere figli in un momento di estrema infelicità e si abituano all'idea che loro due sono l'essenza stessa della loro vita: per Lucy Mickey è la sua ragione di vita e per Mickey Lucy è la sua salvezza, la possibilità di essere una persona normale.
Ovviamente niente di tutto questo conta quando Lucy, a dispetto di tutto, rimane incinta e - neanche a dirlo - contemporaneamente scopre che il cancro è tornato ed è più aggressivo che mai. A questo punto la storia si divide brutalmente: il punto di vista di Lucy sembra estraneo a tutto. Lei decide di tenere il bambino e concentra ogni pensiero, ogni respiro, ogni briciolo di forza verso questa creatura, consapevole che sarà la sua ultima cosa bella. Lucy sente che morirà, lo sa dal momento in cui accetta di portare a termine la gravidanza e di non sottoporsi alle cure, ma è come se se ne fregasse completamente. Vive in modo distaccato il suo declino, tanto che noi ci rendiamo conto delle sue condizioni fisiche solo attraverso gli occhi degli altri personaggi. E' come se Lucy arrivasse fino alla fine integra, per poi morire.
Mickey e gli altri personaggi, invece, sono la voce della ragione. I medici le consigliano l'aborto terapeutico, Mickey vuole che abortisca perché altrimenti perderà lei - ma per lui è più una questione di egoismo puro e semplice, perché ha paura di perdere anche sé stesso -, le sorelle non vogliono che muoia e quindi cercano di convincerla. Niente, però, servirà a cambiare il corso della storia. Si arriva alle ultime pagine in un crescendo di angoscia, con Micheal che infetta ogni parola con il suo terrore, con la sua incapacità di accettare l'inevitabile e, quando si arriva alla morte di Lucy, un po' si rimane male. Quasi c'era la speranza che riuscisse a sopravvivere. Niente lieto fine, quindi. La bimba nasce, Lucy muore e Mickey deraglia: solo quando si rende conto che tiene veramente alla bimba, che lei è ciò che gli è rimasto della moglie, riesce a creare un legame con lei e -quindi- con la vita.
Dal punto di vista emotivo questa è una storia intensa, veramente drammatica e che dona spunti di riflessione davvero importanti. Ma, mentre ci si rende conto che è una storia inventata, si ha ben presente che nella vita reale succedono queste cose e che - anzi - la fortuna che questi due personaggi hanno avuto, l'amore, la famiglia, la felicità nonostante il dolore, non sono cose che capitano a tutti. Quante persone muoiono sole, oppure senza aver mai provato un amore così intenso? Quante non si lasciano dietro nulla, nemmeno un bel ricordo? Se devo essere sincera, leggere una storia che storpia così tanto la realtà dei malati di cancro, che romanza una vita di sofferenza abbellendola con la storia d'amore finta da fiction...non so mi sembra quasi una mancanza di rispetto. Non c'è bisogno di addolcire la pillola: vuoi parlare di cancro? Bene, allora fallo in modo vero, senza inventarti storie incredibili d'amore. Senza il paesello e i vicini che sprizzano amore, senza episodi stucchevoli che servono solo a commuovere, senza episodi fantascientifici di mariti fuori di testa, ma bellissimi e razionalissimi il momento dopo. Non la bevo, non ci casco e, onestamente, non credo che nemmeno l'autrice abbia sentito sul serio il vero concetto della storia: non è vero che la morte non è dolorosa. Forse, per chi ormai è andato, ma chi rimane indietro soffre da morire. Questo è il vero senso della storia: trovare il modo per superare la perdita, per ricominciare a vivere.
Dalla morte di qualcuno che si ama non ci si riprende mai.